Osservatorio Innova-re
Il problema dei cantieri non finiti sta diventando un elemento di preoccupazione, non di poco conto, per tutti gli stakeholders delle società, fallite o in concordato, proprietarie degli stessi. La quantificazione del problema a livello aggregato è difficilmente rilevabile anche se alcuni dati mostrano come non sia da sottovalutare, in quanto le sofferenze del settore delle costruzioni risultano essere di oltre 38 miliardi di euro (ovvero oltre il 25% delle sofferenze lorde totali) ed in particolare quelle assistite da garanzia reali, cioè il cui sottostante risulta essere un immobilizzazione, risulta essere oltre 17 miliardi di euro.
Lo stock di cantieri edili non finiti, le cui società sono in concordato o in fallimento, ha quindi dimensioni considerevoli e molto spesso, questi immobili non terminati, devono essere gestiti da soggetti che oltre a non avere internamente le competenze tecniche non hanno neanche a disposizione le risorse necessarie per valorizzarli o comunque per far fronte alle spese di messa in sicurezza dell’immobile.
Nei casi in cui invece le procedure, proprietarie dei cantieri, hanno una certa disponibilità liquida, il problema risulta essere un altro. Il curatore, in questa situazione dovrebbe decidere se impiegare, o meno, la liquidità della procedura per salvaguardare l’integrità dell’asset e metterlo in sicurezza, gravando quindi sulla massa dei creditori. Per quanto concerne questo aspetto, la legge fallimentare prevede che il curatore può chiedere l’autorizzazione al Tribunale, su parere del C.d.C. ex art. 35 l.f., di non liquidare il bene, o addirittura di rinunciare alla sua acquisizione “stante l’antieconomicità dell’operazione rispetto al vantaggio che se ne può ritrarre in sede di distribuzione dell’attivo” (Mingrone, 2012; pag. 3). Tale orientamento è dedotto dall’articolo 104ter settimo comma e rafforzato dall’articolo numero 42 ultimo comma l.f.. Infatti, vi può essere la rinuncia alla liquidazione di beni già inventariati o la rinuncia alla loro acquisizione quando non si ritiene che ci sia un presumibile ricavo positivo. Nel caso in cui il bene sia “restituito” al fallito, il creditore ipotecario potrà, a sue spese, proseguire o iniziare le attività di esecuzione in deroga all’art. 51 l.f.. Tale norma prevede quindi che l’immobile ritorni nella disponibilità del fallito il quale, vista l’assenza di disponibilità liquide, non potrà né metterlo in sicurezza né tanto meno valorizzarlo.
Dalla pratica empirica risulta chiaro che la procedura, in entrambi i casi, tende ad “abbandonare” il cantiere, con la speranza che arrivi un cavaliere bianco che risolva le ingenti problematiche che riguardano l’immobile.
Il “prendere tempo”, però, non aiuta certamente a trovare una soluzione. Infatti, tale comportamento, oltre a far scadere la convenzione urbanistica e ad incrementare il suo deperimento, aumenta la possibilità sia di essere occupato che di essere demolito, ed i relativi costi, sociali ed economici, saranno supportati dalla società.
Bibliografia:
“Bollettino Statistico III-2014”, Banca d’Italia, 2014.
Mingrone M.L. e altri, “Circolare del Tribunale di Crotone”, 2012.
Pajardi, “Codice del Fallimento”, VII edizione, Milano, Giuffrè Editore, 2013.
2014